giovedì 11 agosto 2016

Dio danaro e Madonna ricchezza




- Driin, driin, driin - ”… ma chi può essere a quest’ora, si chiedeva Gino che si era addormentato davanti al televisore?
Chi è? … ah, sei tu? come mai …,  non è da te chiamare così tardi!
Era un sabato sera, quasi le undici ed era Paolo che chiamava. Poveretto da quando l’ictus lo aveva azzoppato, la salute, quell’uomo, lo aveva proprio abbandonato. Ne era una conferma pure la sua vescica per la quale soffriva da più di un anno.
Gli avevano trovato un cancro, così dicevano i medici. Lui, per questo avrebbe voluto andare sotto i ferri subito, ma come poteva, se nell’ospedale lo avevano messo in lista d’attesa per la fine dell’anno venturo ?
A dire vero, il primario con lui era stato onesto. Gli aveva proposto, se avesse pagato di tasca sua, che lo avrebbero operato subito.
“Luigi,  sono Paolo, passami mia sorella, è da tante ore che non ce la faccio a fare la pipì …”
Maria la moglie di Luigi,  quella sera coricata da parecchio, sentito nel sonno il telefono, subito aveva compreso che era successo qualc’osa di brutto..
“ Se non ce le fai ad orinare da così tanto, si deve chiamare subito il medico – furono le sue prime parole. – Certamente non servirà il primario, ma almeno dobbiamo chiamare quel giovane medico che più volte ti ha visitato e che è pure lui tanto bravo.”
Detto e fatto. Un’ora dopo un infermiere che lavorava con quel giovane medico, anche se l’ora era tarda, s’era recato a casa di Paolo che finalmente con un catetere ben infilato nel pene aveva potuto svuotare la sua vescica.
Quel tubicino fu davvero una benedizione, anche se per Paolo solo il pensiero che avrebbe dovuto tenerlo per un lungo periodo lo angosciava. Un vero tormento, senza poi parlare dei trenta euro che aveva dovuto uscire per pagare quell'infermiere.
“Lunedì, come mi diceva prima il  medico al telefono, ti porterò nel suo ambulatorio e sono sicura, per come sei ridotto, che capirà pure lui che ora devono operarti subito, non possono più aspettare... - così gridava Maria appena uscito l’infermiere”. -
E così andarono le cose. Venuto il lunedì, Paolo lo portarono da quel medico. A vederlo, poveretto, zoppicare e con quella sacca che gli penzolava dai pantaloni, faceva proprio pena.
Signora, le condizioni di suo fratello non sono tanto gravi da obbligarci ad operarlo con urgenza, sentenzio, subito quel medico dopo averlo visitato. Come vede, per ora, seppure con il catetere, può mingere lo stesso.  Lo so che per lui è un tormento, ma purtroppo... 
Si si, ci i sarebbe una soluzione ... Nella clinica dove lavoro quando non sono in ospedale, per operarsi, a differenza dei dodici mila euro che vi ha chiesto il mio primario, bastano settemila e, vi garantisco che siamo bravi anche noi”
“Sette mila euro, un buon prezzo signor dottore, io la ringrazio, ma mio fratello non possiede neppure quelli -  fu  immediata  la risposta di Maria.”
“Allora signora, con suo fratello dobbiamo proseguire come già le ho suggerito, anche se comprendo che per lui, per quel catetere che deve mantenere,  sarà un sacrificio. Ma speriamo che il tempo scorra via al più presto. Solo una raccomandazione: se compare sangue nella pipì, dovete portarlo urgentemente in ospedale.”
Il tempo intanto, piano piano, per Paolo, in quel calvario, passava abbastanza spedito. Era giunto dicembre e anche se le giornate erano uggiose, lui, trovava conforto perdendosi tra i colori del presepe e dell’albero di Natale che per la festa della Madonna sua moglie aveva già ben allestito.
Tutto cambiò quel giorno che alzando gli occhi da  quelle piccole distrazioni, guardando quella sacca dove si depositava la sua urina, Paolo, si accorse che era zeppa di sangue.
Non si poteva attendere un istante e così in un battere di ciglia finì in ospedale. Di fronte a quel sangue, che avrebbe spaventato anche i più coraggiosi, finalmente il povero Paolo, denaro o meno, doveva essere operato. Peccato, che una volta aperto il suo addome, quei medici che lo stavano operando si resero conto che il cancro, come la gramigna, si era diffuso fino alle budella.
Che tristezza per la sua gente, doversi rassegnare che ormai Paolo aveva i giorni contati, ma peggio ancora sapendo che chi non ha denaro per potersi curare è costretto a morire. E in quella angoscia singhiozzando Maria si chiedeva: “chissà se la medicina è una scienza che l’uomo si è inventato per ridurre la sofferenza? “
“Non credo,”  le avrebbe risposto il povero Paolo se avesse potuto ascoltarla e risponderle.
                                                                                                                             
                                                                                                     di Nello Malisano

venerdì 9 gennaio 2015

Riempi un altro bicchiere



Due a zero aveva perso. Come la squadra del paese: due a zero pure quella. E che tristezza…, sempre  perdere...
Non era tardi, fuori ormai si era fatto buio ancora prima che calasse il sole, che in quel giorno nessuno aveva visto.
In una giornata poi, dove aveva piovuto per tutto il tempo, tra l’altro tra una nebbia densa che inghiottiva muri, case e tutte le persone che camminavano sulla strada.
E se ti trovavi in giro per le vie del paese e non avevi voglia di tornare a casa, per ripararti dal freddo, potevi entrare solamente in una osteria.
«Riempi il bicchiere». Queste erano state le uniche parole che Bruno aveva fatto uscire dalla bocca da quando era entrato dentro nell’osteria. Povero Bruno, con quei pantaloni, che pareva da un momento all’altro dovessero scoppiare con tutta la sua pancia e con quello straccio di camicia che indossava da due settimane, sia nei giorni da lavoro che di festa, sembrava un disperato.
«Riempi un altro bicchiere», così Bruno, appena svuotato il primo calice, come un pappagallo, aveva ripetuto un’altra volta, con gli occhi puntati sullo schermo della TV, sistemata nell’angolo del locale, tutto il giorno accesa nonostante nessuno la guardasse.
E bevuto il secondi bicchiere, di nuovo, guardando in faccia l’oste aveva ripetuto: «riempi un altro bicchiere.»
E via avanti,  preso nel suo silenzioso, senza alcuna premura, nonostante da parecchio era trascorsa l’ora per la cena, Bruno non si fermava più. Con tutta la sua calma, svuotava i bicchieri uno dietro l’altro, aprendo la bocca per dire solamente quattro parole: «riempi un altro bicchiere.»
Era davvero una domenica di merda. Una domenica proprio grigia, gonfia di pioggia, con tutto il paese inghiottito dalla nebbia e poi, con quel due a zero subito che si vedeva impresso sul volto di tutte le persone nell’osteria. Sembrava proprio di essere capitati nel paese delle disgrazie.
Proprio una domenica uggiosa, una giornata che un tempo, invece, era festa per tutti. Uomini, donne, ragazzi e ragazze, uno più vanitoso dell’altro, soprattutto le ragazze e i ragazzi che indossavano un abito nuovo per recarsi alla messa. Quella si era davvero una vera festa: la festa di tutto il paese, dove la campane suonavano gioiose e ognuno si faceva più bello.
A questo pensava Bruno  tra un bicchiere e l’altro, ma soprattutto pensava, con tanta nostalgia a quei giorni di festa nei quali riveriva quel Dio che da parecchio non pregava più, non si sa, se perché non trovava il tempo. o perché quello stesso Dio si era scordato di lui.
«Riempi un altro bicchiere». Così Bruno, chiamando l’oste, aveva di nuovo ordinato il suo bicchiere di bianco, mentre intanto, sulla sua faccia tutta arrossata, chissà se per il freddo sofferto nell’intera giornata, o  per i troppi bicchieri bevuti, scivolavano grosse lacrime, tanto grosse, che pareva sulla pelle  gli avessero scavato un rigagnolo.
Mario seduto dall’altro lato dell’osteria, vedendolo così triste e con la faccia tutta irrorata di gocce di pianto gli chiese:
«Bruno ti sei preso una sbronza con il pianto?»
Ma Bruno non sentiva le sue parole, era finito  in un altro mondo. Gli pareva che quel Dio che aveva sempre cercato, dimenticato, bestemmiato, pregato fosse venuto a bere un bicchiere,  proprio li, con lui.
«Oste metti altri due bicchieri, uno per me e uno per lui. Per fortuna non si reca solamente nelle chiese, è proprio vero, è dappertutto e chissà che oggi non sia venuto proprio qui per me. E con domenica nuova vita: vestirò a festa.»

giovedì 8 gennaio 2015

Un Lavoro per le feste di Natale





L’aria aveva pulito il cielo così bene che dalla terrazza si vedevano i monti così chiari che pareva di poter contare i sassi sulle loro pareti, perfino sul monte Canin, nonostante così lontano.
 Anche se il tempo era stato pauroso, con la pioggia e il vento durante la notte, sulle montagne, neve, non era caduta tanta, solo sulle cime più alte si intravedevano tratti imbiancati. 
Quella nottata, po’ per il tempo e per i sogni agitati di Giuseppe, Oliva non aveva chiuso occhio. Solo la mattina si era addormentata così profondamente, da non sentire neppure  suonare le campane delle sette, per la Santa Messa.
Con il buon tempo, era giunto anche il freddo e sulla terrazza, uscendo dalla camera, Oliva, anche desiderava fermarsi a guardare, lassù, quei monti così belli e chiari, seppure ben infagottata, si era trattenuta brevemente: faceva troppo freddo.
E poi aveva premura. Doveva accendere il fuoco e svegliare quel ragazzo che prima delle dieci doveva recarsi a parlare per quel lavoro... Povero, Mario, prima d’ora non ne aveva mai trovato uno come Dio comanda. Non era vecchio,anche se da parecchio aveva superato la maggiore età. Proprio povero Mario, pensando che alla sua età, Giuseppe, suo padre, era da parecchi anni che lavorava, senza contare che aveva prestato pure, per diciotto mesi, per il servizio militare: altri tempi.
Fino ad ora, a parte qualche piccolo impiego, Mario, aveva solo studiato e forse, ora, era giunto il suo momento. Trovarsi, finalmente, un lavoro vero e magari guadagnarsi qualche euro.
Aveva letto sul giornale che per le feste di Natale, in diversi punti avrebbero assunto parecchi giovani. Bastava solamente inviare via mail il  proprio curriculum, che sicuramente qualcuno lo avrebbe chiamato al lavoro da qualche parte.
Mario, per essere sicuro, lo aveva spedito a tutti i dodici indirizzi delle ditte che si erano prodigate ad annunciare tramite giornali le loro proposte di lavoro, anche se si trattava di lavori del tutto diversi tra di loro. Da una parte cercavano operai in una fabbrica di panettoni, in un’altra dove costruivano occhiali e in un’altra ancora dove fabbricavano orologi. Infine in uno di quei luoghi, Call Center, dove,  mediante il telefono, quei negozi virtuali, entrano in contatto con tutte le famiglie per vedere tutte le cose possibili ed immaginabili:  bottiglie divino,  contratti telefonici, vacanze, insomma, ogni cosa. Non mancavano neppure i centri commerciali, grandi magazzini in cui al loro interno si possono contare centinaia di negozi.     
A Mario sarebbe piaciuto che lo avessero assunto in uno di quei centri, dove sulle vetrine sfavillano computers, telefonini, tablets, televisioni, insomma gli oggetti più alla moda.
E per sua fortuna, o forse per sua bravura, le cose avevano preso questa piega: lo avevano chiamato a colloquio proprio in un centro d’informatica. Povero ragazzo per quel colloqui di lavoro a cui doveva sottoporsi era emozionato e spaventato. Pure ora, che prima di partire faceva colazione era agitato. Giuseppe, che si era alzato pure lui, nel vederlo così inquieto, avrebbe voluto, magari, accompagnarlo, anche se sapeva, che suo figlio mai lo avrebbe consntito.
Intanto, nel silenzio della cucina, dove Mario, suo padre e sua madre erano seduti, nel tiepido del fuoco appena acceso, dove bevevano  il latte o il caffè, quando nessuno se lo sarebbe aspettato aveva suonato il telefono.
«Si sono io, chi è mi vuole?”» Così aveva risposto Mario a chi chiedeva di lui.
 «Siamo quelli del negozio dell’informatica che abbiamo risposto alla tua mail, invitandoti a presentarti per il colloquio di lavoro….. Non serve che tu venga, il tuo curriculum ci è bastato per capire chi sei. Se ti va, ti proponiamo un contratto a chiamata. Cioè ti chiameremo al lavoro, per qualche ora, nei giorni che il negozio si riempie di clienti: diciamo dalle cinque alle dieci ore settimanali. Lo stipendio? Ti pagheremo con i vouchers, sei euro per per ogni ora di lavoro. Se la nostra proposta è di tuo gradimento, oggi stesso, pomeriggio, puoi venire a firmare il contratto. »
Marco che sperava in un lavoro duraturo e di potersi guadagnare un bel gruzzolo anche durante le feste, ma nell’udire quella misera proposta, si era sentito scivolare la lingua nel fondo del collo. Gli pareva di soffocare e gli veniva da piangere, anche perché guardando sua madre che aveva compreso tutte le parole che erano uscite dalla cornetta del telefono, si era accorto che la sua faccia era colma di lacrime.
Giuseppe, il padre, frattanto, anche se non aveva capito con precisione la proposta di lavoro che avevano offerto al figlio, guardandolo in faccia e, osservando la moglie aveva capito ogni cosa.
Per questo avrebbe voluto dare un pugno sul tavolo così forte da romperlo in mille pezzi. Si rendeva conto che il mondo tornava indietro come quando lui da ragazzo lavorava a nero e lo pagavano  a giornata e che i soldi che il padrone offriva a suo figlio per quelle poche ore di lavoro non sarebbero bastati neppure per il costo la benzina per la macchina che lo portava al lavoro. Ma ciò che a Giuseppe feriva il cuore era la consapevolezza che quel giorno che  lui e sua moglie non ci fossero più, suo figlio sarebbe sprofondato nella miseria.

La Mucca di San Daniele



«Sogno, sono morto, o  qualcuno senza che m’accorgessi mi ha portato in quel mondo che non c’è più, ma che ancora ben ricordo?» si chiedeva Giuseppe, sforzandosi di aprire gli occhi, dopo una notte laddove non capiva chi lo avesse riportato nei tempi in cui il moccio faceva sul suo viso da padrone. 
A Giuseppe, tornavano alla mente e  davanti ai suoi occhi antichi ricordi di vita, rinchiusi in quella scatola misteriosa, che nessuno sa se conserviamo nel cuore o nel cervello: in quella custodia dove il tempo piano, piano li lava di tutti i tormenti e i dolori di allora, per poi quando meno ce lo aspettiamo, magari nel sogno, farceli rivivere ancora più belli.
E in quella veglia, gli pareva di essere tornato davvero  nella sua infanzia; di fiutare lo stesso odore dell’erba bruciata dalla brina, che cresceva su  colli selvaggi dove andava ad uccellare; di vedere come allora le bacchette coperte di vischio zeppe d’uccelli imbrigliati:lucherini, fringuelli, peppole, cardellini.
« Muoviti, apri gli occhi, svegliati, smettila di farneticare, è da ore che parli da solo …»
Oliva, stanca di sentirlo, si girava, nervosa, nel letto. Avrebbe voluto alzarsi, ma fuori delle coperte faceva un freddo che raddrizzava i peli appena messa fuori una mano. E poi dalla finestra si sentiva che sulla strada la tramontana soffiava  senza tregua e la pioggia cadeva copiosa.
Povera donna,  visto quel tempo là fuori, avrebbe voluto assopirsi almeno  un po’ e per questo pregava Giuseppe  di smetterla di sognare, ma lui non la sentiva. Chissà dove lo aveva portato Morfeo?
« La mucca di San Daniele –  Giuseppe, digrignando i denti, borbottava – la mucca di San Daniele.»
Si Giuseppe, ora era salito su quel trenino che da Udine, ogni giorno, lambendo tutti paesi ai piedi delle colline, raggiungeva il paese del prosciutto, San Daniele. Oliva lo aveva capito dalle corbellerie che uscivano dalla sua bocca, come altrettanto lo aveva capito dalle sue parole che ora il treno si era fermato nella stazione di Fagagna.
« Domani …, si domani...» poveretto, così Giuseppe mormorava nel sonno,«me lo darai domani, il quando con il treno ripasserà da queste parti……, verrò con la gabbia»
Giuseppe sognava di un cardellino che un so amico, di quel piccolo centro collinare, Fagagna, aveva preso raccolto proprio per lui in un nido di uno degli abeti crescevano attorno alla stazione.
Oliva, povera donna, a sentirlo, non sapeva se ridere o piangere e rassegnata, provando di nuovo a destarlo dal sonno, aveva aggiunto: «Sciocco, quale cardellino, quali abeti, nella stazione di Fagagna, quale mucca di San Daniele. Quegli alberi li hanno sradicati da parecchio, e anche la Mucca di San Daniele l’hanno rottamata molto anni fa. ».
Intanto, fuori, la bora non dava tregua. La pioggia cadeva abbondante e non tanto lontano si sentiva sbattere qualche balcone. Su la strada, invece, pareva che corresse qualcosa di grosso che il vento portava con se: forse un pezzo di  grondaia o un grosso cartone.
 La bufera di quell’uggiosa mattina ad Oliva pareva lo specchio di quel mondo nuovo che da qualche anno piano, piano tornava alla ribalta: un mondo di miseria, di case fredde, di ragazzi e ragazze costretti ad oziare;  di padri, di madri senza lavoro, Dio ci protegga, come parecchi anni orsono, fatto di pochi ricchi signori da una parte, e di tanti poveri morti di fame dall’altra.
«No, no, in quel tempo là fuori impazzito, in quel modo così malvagio cha avanza, non alcuna intenzione di andarci: meglio rimanere sotto le coperte seppure devo ascoltare i sogni d Giuseppe, le sue stravaganze, i suoi cardellini, i suoi viaggi sulla mucca di San Daniele, ma  che a pensarci bene non mi dispiacciono: mi sembrano belle fiabe»


*Così veniva chiamato un vecchio trenino che pe la flessibilità delle sue carrozze pareva una mucca che si inchinava a pascolare l’erba circostante

mercoledì 24 dicembre 2014

Il Mio vecchio borgo



Bevuto il suo bicchiere, Gino, era uscito dall’osteria. Tanto cosa ci doveva fare la dentro. A parte due forestieri, non c’era nessuno, e poi gli era venuta l’idea di rivedere il suo borgo.
«Che fortuna! Guarda chi si vede? »
Sullo stesso marciapiede, era Mario, che anche se non l’aveva riconosciuto, pareva gli andasse incontro. Di sicuro anche lui era tornato per le feste.
«Sei tornato anche tu per le feste di Natale, come stai…?»
E finito di salutarsi come Dio comanda, Gino non aveva pensato due volte a chiedere a Mario se andava con lui a fare una passeggiata per le vie della loro cittadina.
«Dai vieni con me, vorrei rivedere i luoghi dove siamo nati.»
Detto e fatto, tutti e due erano diretti per le vie del loro vecchio borgo, e appena superata la “Bolde”, un piccolo stagno ora coperto, dove un tempo cantavano le rane, e proseguito ancora per pochi passi, eccolo là il vicolo che girava dentro nei cortili dove giocavano da bimbi.
«Gino, non è rimasto più nulla qui, dove se n’è andata tutta la gente che un tempo riempiva l’intero borgo?»
«Mario, come tu sai, i vecchi se ne sono andati a riposare per sempre lassù, sotto i pini; i figli invece, chi ha potuto, si è fatto un nuovo tetto, dove un tempo si seminava il  frumento e il granoturco, o sulle colline del paese, dove si raccoglieva il fieno.
Hai ragione, è proprio una vergogna. E se non avessero acquistato qualche casa gente di fuori, e pensa tu, albanesi e croati, che non tutti vedono i buon occhio, qua sarebbe veramente un cimitero.
E a proposito di cimitero, te la ricordi? Qui abitava Maria, poveretta, sempre con un nuovo lamento per i suoi malanni immaginari, anche se con una salute di ferro, tant’è vero che ha sepolto non solo il marito, ma pure i suoi figli.
Qua, invece, abitava Oliva, poveretta pure lei. Mi ricordo che a vederla pareva potesse abbattere un muro con un solo soffio, ed invece, al contrario di Maria, se n’è andata a mangiare il radicchio dalla parte della radice molto presto. Te la ricordi? »
Gino, perso in ricordi d’altri tempi, dal cortile, con la mano, indicava le case appiccicate una all’altra che passavano davanti ai loro occhi.
«Questa era la casa dove abitavano i “Murei”: da una parte il vecchio Luigi con Vittoria, e dall’altra, suo figlio con la sua famiglia. Vero, il caseggiato è tanto grande che avresti potuto mettere dentro un’altra ancora.E laggiù, più a valle del vicolo, in quel casamento, dove abitavano quelle due famiglie con tutti quei bambini? Più bambini che gatti, te li ricordi? »
A Mario, quei ricordi che Gino gli faceva rivivi vere, gli avevano messo addosso così tanta malinconia che piangeva: le lacrime gli scivolavano copiose nella gola come se in bocca avesse avuto un ruscello.
Pensava ai Natali di allora tra quelle stradine, alla tanta neve che cadeva in quegli inverni, a quei tempi dove ogni famiglia ammazzava il maiale.
Gino intanto, anche se si era accorto che Mario singhiozzava, non si dava tregua nel riportare alla memoria i ricordi di quelle case, di quella gente che non c’era più.
«E ti ricordi il cotile dall’altra parte della strada, dove prendevamo il viottolo per recarci negli orti?
Anche là abitavano sei famiglie. E ora guardati in giro, non si vede neppure un cane; è rimasto solo qualche scapolo, giovanotti di un tempo, alcune vedove, anche loro con il piede prossimo a compiere l’ultimo passo. E poi del tutto soli, in queste case chiuse, che come i loro padroni, non so quanto dureranno. Vero, dove sono andati tutti quegli anziani, bambini, ragazzi, ragazze, uomini, donne,  tutta la gente di allora?
Meno male, che in tanta desolazione sono rimaste le buche dei letami dove ancora crescono i gerani selvatici, e se vieni nelle belle stagioni, durante il giorno, potrai vedere nei cortili saltellare i merli, volare le rondini e nella tarda serata qualche pipistrello. Inoltre sotto i portici le travi sono ripiene di nidi di rondine con dentro gli uccellini. E meglio ancora se vieni la notte quando cantano i grilli: se avrai fortuna, potrai ascoltare tra i lampi di un lontano temporale o di qualche lucciola il canto dell’usignolo. »